domenica 19 agosto 2012

Il salario dei minatori africani. Le rivolte in Zambia e in Sudafrica



34 morti e 74 feriti nell'eccidio della miniera di Marikana, e mentre prosegue lo sciopero selvaggio in Sudafrica i minatori dello Zambia uccidono negli scontri il capo che rifiutava di pagarli.



L'altalena degli indici di borsa e il variare del differenziale dello spread sembrano descrivere un'inerzia impalpabile della crisi globale. Quasi ci fossero leggi dell'economia capaci di governare un mondo separato dal nostro. Eppure la crisi parla il linguaggio delle nostre vite, parla di saccheggio dei territori, di salari bassi, parla di una nuova fase di accumulazione selvaggia di capitale, tutte variabili che siamo obbligati a interrogare politicamente leggendole nella conflittualità del loro prodursi.
Non c'è nessuna inerzia della crisi. La crisi moltiplica i fronti aperti dal capitale globale sui quali aggredire le vite e i territori. Gli eccidi dei minatori sudafricani ci raccontano delle resistenze, su questi stessi fronti, del lavoro vivo allo sfruttamento, ci raccontano del dinamismo dei processi di accumulazione capitalistica, ci raccontano che - sebbene espulso dall'immaginario occidentale - il lavoro salariato e fordista difficilmente si è smaterializzato, ma anzi si riproduce con pari violenza e intensità occultato nelle periferie delle nostre nuove cartografie del lavoro sempre più dilatate e puntiformi.



Come in Sudafrica gli operai trucidati dalla polizia della miniera di Marikana lottavano per una paga più altra e condizioni di vita più dignitose, così allo stesso modo le rivolte in Zambia nel distretto minerario di Sinazongwe si sviluppano sul salario.
Da anni in Zambia i minatori locali lottano contro la violenza del neo-imperialismo di capitali cinesi che negli ultimi tempi hanno investito nelle miniere di rame e carbone oltre 400 milioni di dollari. Nel 2010 a più riprese i capi cinesi avevano aperto il fuoco sui minatori in agitazione. 11 operai erano stati feriti dalle armi del padrone alla Collum Coal Mine, la stessa miniera nella quale Wu Shengzai, 50 anni, dirigente della Collum, è morto colpito da un carrello che è stato spinto contro di lui mentre cercava di fuggire in una galleria. Il dirigente era noto per il suo pugno di ferro, per il ritardo nei pagamenti agli operai e aveva ripetutamente negato di accordare gli aumenti sulla paga e i miglioramenti sulle condizioni di lavoro richiesti dai minatori. La sua intransigenza davanti all'ultima protesta gli è stata fatale.



L'elezione di Michael Sata alla guida dello Zambia nel 2011 ha mischiato le carte per gli investitori stranieri nel paese. Dopo un ventennio di governo del Movement for Multiparty Democracy (MMD) e la presidenza di Ruphia Banda (2008-2011), ampiamente sostenuto dai finanziatori cinesi durante le ultime presidenziali grazie alla sua politica aperta a un ingresso indiscriminato di capitali cinesi nel paese, Sata, leader del Patriotic Front (PF), ha garantito la continuità degli investimenti richiedendo però il miglioramento delle condizioni di lavoro per i cittadini zambiesi. Di recente il governo di Sata ha fissato un nuovo tetto per il salario minimo, innalzandolo a 220 dollari (circa 180 euro), senza però dimostrare di poter politicamente imporre il rispetto della propria risoluzione.
La Collum infatti ha rifiutato di allinearsi ai nuovi standard salariali costringendo gli operai a scendere in sciopero. Secondo fonti della polizia fra i dimostranti erano presenti molti abitanti dei villaggi vicini unitisi alla lotta dei minatori per costringere i capi ai pagamenti. Non a caso infatti i 12 arresti effettuati dalla polizia per l'omicidio del dirigente cinese hanno colpito i "sospettati" del villaggio, nel tentativo di rompere le reti di solidarietà costruite in una lotta comune contro lo sfruttamento feroce nell'industria estrattiva.



Ian Farmer, l'amministratore delegato della Lonmin, la multinazionale britannica responsabile del massacro in Sudafrica, afferma che in un periodo di crisi "bisogna tutelare i bilanci", ovvero tagliare sul costo del lavoro, scaricando sul lavoro vivo il peso della stagnazione sul mercato della richiesta di materie prime. Per l'industria globale la crisi rappresenta un'occasione nella quale insediarsi e concentrare capitali grazie al mantenimento di salari bassissimi o alla loro riduzione (le riforme nostrane sul mercato del lavoro e le strategie di reindustrializzazione in occidente descrivono questa storia tra precarizzazione e svalutazioni salariali).

Il neo-colonialismo cinese in Zambia ben simboleggia questo processo di accumulazione. Ma questa dinamica è pur sempre agita da un soggetto politico, ovvero modifica e istituisce nuovi rapporti sociali, risponde a un'iniziativa capitalistica suscettibile di inversione nell'attivazione di forme di resistenza. Questo significano le rivolte sul salario dei minatori africani per noi: invertire la spirale attorno a un "no costituente", raccogliere le istanze di liberazione – dalla possibilità di riprodurre la vita nel salario fino alla sottrazione dallo sfruttamento capitalistico - e ricomporre una sintassi conflittuale oltre il ricatto della crisi trasformando, anzi, la crisi stessa nel vero terreno di scontro e di cambiamento grazie al motore delle lotte


http://www.infoaut.org/index.php/blog/conflitti-globali/item/5371-il-salario-dei-minatori-africani-le-rivolte-in-zambia-e-in-sudafrica

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