martedì 14 agosto 2012

Marina Abramovic: "Il cinema come l'arte deve disturbare"

L'artista nel film «Bob Wilson's Life and Death of Abramovic»


La regina della Body-Art in giuria alla Mostra di Venezia: «Mi batterò per film che esaltino la nostra esistenza»


PAOLO CALCAGNO


Yes, I’ll fight: sì, mi batterò», Marina Abramovic si massaggia i muscoli in attesa della «full immersion» nei film della Mostra di Venezia e nelle relative discussioni con gli altri membri della Giuria, di cui la grande performer farà parte. «Mi batterò per far prevalere la qualità dei film d’arte, dei film che esaltano la nostra esistenza, e mi opporrò fermamente alle bullshit (stronzate) commerciali».
Marina Abramovic, 65 anni, da oltre 40 utilizza il corpo per fare arte oltre ogni limite fisico e mentale e per trasmettere emozioni ed energie al pubblico dei suoi celebri spettacoli dal vivo, che le sono valsi il titolo di «regina della Body-Art». L’artista serba, appena sbarcata da New York, è allo «Spazio Lia Rumma», tempio milanese dell’Arte Contemporanea.

Marina, è pronta per giudicare i film della Mostra di Venezia con il suo sguardo di artista?
«Alla Mostra mi volevano in Giuria già l’anno scorso, ma fui costretta a rinunciarvi a causa di precedenti impegni. Quest’anno, il direttore Barbera mi ha rinnovato l’invito e sono stata felice di accettarlo. Sarà un incarico difficile perché, a partire dal presidente Michael Mann, i giurati sono tutti registi e un artista ha sguardi differenti da quelli di un cineasta. Credo di essere stata chiamata per contribuire a una scelta che favorisca l’estetica (non la forma) rispetto ad altre considerazioni più tecniche e commerciali».

In «Art must be beautifull, artist must be beautifull» lei tormenta volto e capelli con una spazzola di ferro. La sua idea del rapporto tra bellezza e arte vale anche per il cinema?
«Per me, l’idea che l’arte deve essere bella è molto superata. L’arte può essere brutta, disturbante ma, soprattutto, deve essere vera, deve avere un messaggio. L’idea di bellezza è solo un concetto formale. Questo è quanto ho cercato di dimostrare usando la mia testa come un oggetto e pettinando con forza i capelli, con un movimento contrario all’immagine di bellezza. Per me, l’arte non deve essere solo bella, deve disturbare. E questo vale anche per il cinema».

Quando si è avvicinata al cinema?
«Avevo 10 anni, quando a Belgrado ho incominciato a frequentare la Cineteca con fratelli e amici. Non avevamo la tv e passavamo le giornate con i film di Dreyer ed Eisenstein, abbiamo visto tutto Bergman, tutto Kurosawa. Li guardavamo con occhio attento alle riprese, al montaggio: li studiavamo. Sono cresciuta poi guardando i film di De Sica, Visconti, Fellini, Antonioni: La Notte e Deserto Rosso erano e sono i miei film preferiti. Il cinema italiano di allora è sensazionale, ti arricchisce. E che attori: Monica Vitti accende una sigaretta, guarda fuori dalla finestra e tutto è fatto».

Ha diretto i video delle sue performances: mai pensato di girare un film?
«Il mio sogno è di fare il remake di Teorema, di Pier Paolo Pasolini. È un film sulla soglia tra il Bene dal Male. Laura Betti è ossessionata dal desiderio per Terence Stamp e sta per suicidarsi: lui la salva, la possiede, e lei diventa santa. È un film sulla ricerca di Gesù: parte dalla materialità e se ne distacca sollevandosi verso l’estasi e la spiritualità. Anche il mio lavoro parte da una situazione normale, materiale, per trascenderla».

E fra i registi di oggi qual è il suo preferito?
«Amo molto Lars von Trier. I primi 15 minuti di Melancholia sono pura video-art: sembrano un’opera di Bill Viola. Al contrario, odio i film americani: hanno tutti la stessa formula, spendono tanto per gli effetti speciali, ma poi il loro messaggio rimane quello della violenza. Quando esco dalla sala mi sento vuota, lo spirito non cresce. Amo tantissimo, inoltre, Kubrick e Pasolini, al quale non perdono di aver reso grottesca Maria Callas in Medea. Ma il suo Salò o le 120 Giornate di Sodoma è straordinario, è una critica durissima della nostra epoca: non è solo una storia italiana. Fra i registi di oggi mi piace Matteo Garrone (sono contenta che sarà con me in Giuria): il suo Gomorra è un documento bellissimo che mostra una realtà feroce».

Alle Giornate degli Autori passerà, fuori concorso, il film «Bob Wilson’s Life and Death of Marina Abramovic», di Giada Colagrande, che illustra la realizzazione delle sue performances di Manchester e Madrid, Vita e Morte di Marina Abramovic. Perché uno spettacolo sulla sua morte?
«Abbiamo tutti paura della nostra temporaneità, sapendo che la morte può arrivare in qualsiasi momento. Ma la gente preferisce non pensarci. Io, invece, mi confronto con questo pensiero: voglio controllare, voglio sapere che cosa succede, che cosa si prova. Quando accadrà, vorrei morire cosciente, senza paura e senza rabbia».

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